Nakakura e Ueshiba

Nell’ottobre del 7° anno di Showa (1932), alla presenza del venerato maestro Nakayama, che rappresentava i suoi genitori, Kiyoshi venne adottato da Ueshiba Morihei, che possedeva un dojo d’aikido a Sinjuku-Wakamatsu. Durante i 5 anni in cui durò legalmente questa adozione, Nakakura si chiamò Ueshiba Morihiro. Presentare Ueshiba Morihei, fondatore dell’aikido, è un compito estremamente difficile, per il mistero che avvolge questo personaggio dal genio esoterico e dalla dimensione cosmica.

Ueshiba si era dedicato interamente all’aikido, al punto che non ebbe vita familiare. Nel ’32 venne costruito il Kobukan, che serviva da quartier generale della sua attività. In quell’epoca Morihei si preoccupò di avere un successore e suo figlio Kisshomaru era solo un ragazzino di 10 anni, di cui non si poteva ipotecare il futuro. Orientato a trovarlo fuori dalla famiglia, egli si consigliò con l’amico Nakayama Hakudo, che gli raccomandò Nakakura Kiyoshi.

Il Kobukan di Ueshiba era soprannominato: il Dojo Infernale di Ushigome. In quel periodo Nakakura si allenava alla Polizia Imperiale, al Yushinkan, al dojo Noma – anche in altri posti – e insegnava kendo da Ueshiba, approfittando per studiare l’aikido.

Riferendosi agli aspetti fisici dell’aiki di Ueshiba si dirà che è prodigioso; commentandone l’arte, la si taccerà di esoterismo. Morihei, seduto per terra a gambe incrociate nell’atteggiamento di leggere, manteneva la posizione spinto da cinque o sei vigorosi giovanotti. “Dai, spingete… tirate!”. Lui col sorriso sul volto e i ragazzi un attimo dopo si trovavano a terra. Quotidianamente si assisteva a simili episodi.

Nell’aikido Ueshiba applicava rigorosamente il tai-sabaki. Un forte attacco non dava luogo a uno scontro anzi, la schivata gli dava pieno controllo dell’altro. Racconta Nakakura: “Quand’ero giovane, ho avuto occasione di accostarmi all’aikido. Mai ho visto qualcuno avere tanta padronanza da disporre con due dita di avversari estremamente potenti; i presenti pensavano subito a forme combinate. Anch’io pensavo così, ma quando il Maestro mi ha mostrato le sue capacità, ne sono rimasto sconvolto. Disponeva a volontà di irimitenkan e, grazie a un tai-sabaki in qualsiasi direzione, utilizzava la potenza degli avversari a suo beneficio, proiettandoli con sconcertante facilità. Quando ho visto questo, ho pensato che avrei dovuto dedicarmi ai movimenti laterali, per non limitarmi a quelli avanti-e-dietro. Qualche anno più tardi ho raccolto i frutti di questa esperienza. Per penetrare l’essenza di una cosa, il primo passo è praticare”.

(D.A., Arti d’Oriente – settembre 1998)